Dentro il mio occhio, il gioco
di Aldo Gerbino
Rotondità canora dei miei sensi, senza alti né bassi,
come le immagini pastose di quelle VELE fatte per na-
vigare tutte dentro il mio occhio
(e nei fiori variopinti del cervello)
[Guglielmo Jannelli, da L’arcobaleno dei miei sensi, 1926]
Un quadro d’insieme
Il cromodinamismo insito ed espungibile dalle Optische Poesie, nutrite dall’intelletto pluri-immaginifico dell’extravagante, quanto fantasioso precursore, il tedesco Oskar Fischinger (1900-1967), sembra inconsapevolmente raccolto dalla struttura segnica di Ziganoi (alias Ignazio Cammalleri). Egli si accosta a tale dispositivo intellettuale con la sua circolarità di marchi, di efflorescenze pigmentarie, d’involucri e intrecci, tutti oggetti visivi pensati in movimento e che non soddisfano a pieno, o almeno non acquietano, il suo furor creativo; una tensione del ‘fare’ capace di consegnarci una continua, non aggressiva, fisiologia germinante. Un bergsoniano élan vital indirizzato verso un’ossessività dell’espressione geneticamente connaturata, dedicata a quella cifra esemplare aderente alla linea, ad una geometria – potremmo dire con toni declamatori – straziata dal tentativo volto ad una possibile agenesia della forma, benché essa sia destinata ciclicamente a ritornare. Linee, attraversamenti, intrecci, stie, spezzature, fanno della visione di Ziganoi il suo substrato di solidità, una vitale giustificazione proprio in virtù di quel custodire, riconsegnare – nel suo percorso evolutivo – l’icona collocata sulla soglia di riflessione: esemplare sponda su cui disporre gli anni di un faticoso processo maieutico.
I magnetismi rilasciati da quest’artista sembrano guidarci verso la necessaria perentorietà del gesto e, non a caso, della sua componente ludica, in una sorta di imbrigliamento del flusso operativo, in quelli che sono i punti giunzionali di ogni inequivocabile quotidiano conflitto, sempre alla ricerca di un bilanciamento naturale legato alla dimensione delle cose, e, contemporaneamente, al fragile temperamento che le cose, a modo loro, ci restituiscono. Una visione che incontra, almeno per alcuni aspetti e in modo tangenziale, quel “Racconto la società con la casa, la famiglia” – dichiarazione di poetica dello spagnolo Mateo Maté (Galleria Nazionale di Roma, 2020) – dove si parla di “nazionalismo domestico”, anti-globalizzante, in cui si riflette e s’irraggia comunque il desiderio di un’interezza sociale, senza obliare le identità, per una civiltà intinta in quello smalto tolstoiano del villaggio/mondo. Ed anche, e non potrebbe essere altrimenti, Ziganoi racconta di un ordine parallelamente mosso e articolato in quella geocultura del quotidiano in cui la materia, di cui son fatte le cose che ci circondano, ci viene consegnata, parcellizzata, nella caldaia comune della sostanza, ricca di quelle parole delle quali ci serviamo al fine di un riconoscimento, d’una possibile attrazione sentimentale.
D’altronde è Takis Varvitziotis a rilevare, in un suo verso tratto da I fili della Vergine, come «noi nominiamo le cose per salvarle dalla morte»; in tale maniera queste evenienze sono, soprattutto, il tentativo di rileggere il riflesso degli oggetti, a volte veri e propri fossili della civiltà domestica, accogliendo proprio da essi gli interrogativi, gli enigmi che persistono nelle nostre azioni. Un intreccio capace di compensare il nostro linguaggio, nel ricostruire e rilevare l’archetipo che sottostà a ogni gesto, ad ogni macchina che produciamo e che traduce gli oggetti in pròtesi delle nostre mani, del nostro stesso pensiero, modificando ed estendendo la qualità del nostro sensorio.
Il percorso attuale di Ziganoi apre tutti i versanti della sua ricognizione nella continua pratica del mondo accessibile, e, allo stesso tempo, indagandolo nell’astrazione, in quel suo intrigo soltanto in apparenza solitario.
Tale suo mondo della rappresentazione si dispone quale sostanza primaria che ha fatto della percezione la propria ragione creativa. Il cammino affrontato sembra condurlo verso approcci sinestetici tra terra e spazio, accompagnati dall’avvolgente rullio del piano comportamentale. C’è da notare come il paesaggio degli oggetti, nelle plurime morfologie di Ziganoi, si relazionino lentamente con una costruenda poetica nella quale, abbandonando le linee che furono storicamente della “nuova figurazione”, e con un sollecito attingere ai moduli pertinenti della frammentazione del simbolo e soprattutto dell’astrazione gestaltica, si rivelano come percorsi indefettibili, proprio in virtù dell’impegno primario della loro dinamica interiore. Condizioni, queste, che sono sostenute dall’intensità consapevole di tracciati, e di quell’affollarsi dei corpi geometrici articolati, particolarmente, anche nella loro essenziale qualità tonale. Un procedere che insiste sulle sue necessarie visioni, le quali, sempre più vanno qualificando un personale linguaggio posto al servizio d’una ricorrente immagine poetica. I segni di tale forza, riversata nel diorama delle proprie invenzioni (e fuori dalla logica descrittiva), connotano figure capaci di affidarsi alla conflagrazione dei vari elementi del postmoderno per quel tanto che si renda sufficiente a prendere distanza dallo stereotipo.
Su tale versante si registra uno spessore pittorico arricchito dalla cultura figurativa di base, non obliata, né tanto meno deplorata, per quel mantenere nella dovuta considerazione le puntuali emersioni iconiche che puntellano il proprio destrutturato linguaggio. Per Ziganoi ciò si pone come crescita del suo lessico sempre ben nutrito dall’osservazione riflessa dal mondo visionario, poi sceso nelle fratture impervie della realtà, tanto che in ogni momento esso ci appare quale condizione emozionale, empatica: una costante utile presenza al progredire del proprio registro comunicativo. Il desiderio di avvertire e potenziare l’abbandono delle effigi, pur trattenendo a sé il senso raffigurativo, certo meno intimo delle cose, gli consente di ricodificare la ricerca più attuale della sua pittura. In queste tele, in queste sue carte, fluisce senza interruzione la proiezione della sostanza dell’agire e dello stare in cui, appunto: il luogo, la casa, l’ambiente più prossimo al vissuto giornaliero circondano e coinvolgono la storia personale, la memoria, tutte quelle prensili esigenze rese attive dalle sostanze del vivere e dalla volontà di una energica rappresentazione.
Queste proiezioni sprigionate nelle atmosfere dell’óikos, ma non per questo meno avvinte alla tangibilità della terra, si materializzano nel gioco dei colori, con la vivacità impulsiva mescolata, e non sottratta, ad un nervoso ‘tattilismo’ disperso tra il nostro corpo e il tracciato dei viluppi cromatici; esse per altro affollano la materia senza soffocarla, infarcendola con i lembi gioiosi della realtà. Ci si attesta in quell’ambito offerto dall’attrito che d’improvviso si elide nell’incontro delle luci, percependo quanto, in un continuum, già viva in noi.
In questo cerchio di possibilità espressive maturate nel lavoro di Ziganoi, prende corpo la sua odierna ricerca, dipanata da un involucro che attinge con le sue radici al mondo dell’infanzia e a quel format della fanciullezza perenne che trova alimento durante il corso dell’esistenza, in ogni momento e in ogni luogo. Una costante tensione affiancata, indefettibilmente, alla natura del segno raccolto e aggrumato nella sua pienezza polisemica, sospinto da uno spontaneo vigore affinché possa essere sotteso in una cerniera di moduli compositivi disposti per atemporali ambienti domestici, o nello scorrere di un’introspezione spirituale. In questi luoghi creativi la geometria si trasforma in ritmo, abbandona l’urgenza ornamentale, anzi la sfalda, la sopprime, a volte la dilata o le assegna un’amplificazione inaspettata. Una rappresentatività della forma tradotta e vestita dell’idea dell’umwelt; affinché venga mostrata nel suo viluppo di sollecitazioni percettive sfociate, più che nel contrasto dei pigmenti, nell’interfaccia di linee e segni risoluti. Tali elementi si compattano in assemblaggi di corpi confinanti: oggetti che protrudono dalla memoria, dall’idea del tatto, dall’olfatto, dai sensi poiché esse stessi appaiono come materia ineffabile dell’esistenza.
Sono segnali rilevabili in spaziali e attorte linee, in rettangoli sfumati, in cerchi, nell’esuberante flessione di colori essenziali, nell’eterea disposizione di emotività ottica nella quale il dominio par essere legato alla disposizione casuale, insubordinata alla stessa ragione e, pur ‘essa stessa’, ragione di un ordine coscienziale perentorio. Eppure tale disposizione di materiali iconici, offerti allo sguardo e alla mente, matura con lentezza in simboli ornamentali, ma di un ornamento affiliato all’atmosfera del momento, senza particolari edulcorazioni, senza affettate disponibilità della composizione. Il tutto diventa allora denominatore comune della molteplicità del visibile, forme evocate da un vissuto armonico e speziato dalla leggerezza linguistica; una centralità d’immagini votate all’intima riflessione, spiralizzate e attratte dall’insistito quanto ordinato mulinello dei desideri, dei ricordi, in un certo senso da un vago sapore nostalgico.
In tale succo non manca agli oggetti la possibilità di trasformarsi da icone in simboli (nell’accezione di Peirce), per poi arricchirsi, grazie alla loro iterazione di scritture a volte asemiche, in stimolanti ‘non sense’ capaci di autogenerarsi. In tale complesso sistema il gioco si fa allora più probante alla propria ricerca figurativa, mai assorta su se stessa, bensì si apre a soluzioni dinamiche capaci di stravolgere lo scenario rappresentativo.
Percorsi
Ritmi e asemie
Col differenziarsi del percorso creativo, Ziganoi attinge ad una istintualità diremmo pascoliana, in quanto abbandonata a schemi d’azione totalmente immersi nella dimensione fanciullesca, nella ricostruzione della memoria accesa col fuoco della curiosità e che insiste sul piano della conoscenza elaborando delle strategie votate all’azione. In tale gestualità si esprime e si comprime la parte primaria del percorso di Ziganoi, il suo procedere che insiste sulla condensazione di figure euclidee – il quadrato il triangolo – le quali vengono infisse sulle superfici per supporti variabili: dalle tele alle tavole ai tessuti, riconoscendo, nella molteplicità delle materie, una necessaria espressione del registro tattile e visivo. Tali simboli geometrici si attestano su altri segni di arresto: punte di frecce, cerchi impropri che riportano ad una linguistica biologica in cui le icone raccontano di una identità specifica, di una narrazione della loro genesi e della loro capacità di metamorfosare. Altre volte, a poco a poco, tali elementi si vanno come screpolando, disgregando. Allora le linee s’intersecano, si frammentano, creando grovigli, agglomerati, agglutinazioni ora di colore ora di segmenti.
La geometria diventa, quindi, il frammento, il coagulo, perpetuandosi in un’esigenza di astrazione gestuale (in quella vasta area novecentesca dell’ “action painting” che ancor oggi riflette i suoi bagliori) e imprimendosi nel testo primario del racconto pittorico. Altre volte le linee si aggregano in un quaderno di sottili e insistenti tralicci: una tessitura o una pettinatura monocromatica alternata ad agglomerati pigmentari in cui i colori di base si fanno pedana essenziale alla stabilità del vissuto pittorico. In altri casi questo suo tardivo e ricreato espressionismo astratto si va addensando in grosse zolle cromatiche compattate, quasi emergenti dalla tela, impossibilitate alla fuga, ma non per questo limitate nel loro progetto evoluzionistico, giacché Ziganoi, ora ci dice della frammentarietà di tali morfologie, destinate a trascorrere tempi e modi legati all’istinto esacerbato per un orizzonte sempre in progress. In altri momenti di questa fase incipitaria e, allo stesso tempo, d’imprinting, proprio nell’approccio determinante del suo tragitto creativo, i segni si ipertrofizzano, diventano corpose virgole cromatiche, per assestarsi su paesaggi linguistici asemici che, ora col colore blu ora col rosso, trascrivono pagine in cui il significato scorre sul filo dell’atonia, del respingimento di ogni proporzione logica, lasciando il tutto ad una collocazione mentale a carattere archetipico attinta dal caos. Un’asemia che produce, comunque, argomenti su cui destinare la propria dimensione futura del dipingere.
Morfologie plurime
La dimensione intermediaria che connette il lavoro precedente alla ricerca che segue, si configura in un attestato di lingua e pigmenti costituito e rafforzato da un paesaggio insistentemente euclideo, un ribaltamento delle tessiture ancor più con zolle geometriche come disidratate, incrociate, pronte a costituire, anche con la presenza di forme tubulari, aspetti di composizione eterogenea e alla ricerca di un rinnovato assetto dinamico.
Un comparto espressivo in cui viene denunciata da Ziganoi la continua e attenta riflessione sulla forma e sulla sua dissoluzione, nonché sulla sua ricostituzione arricchita da nuovi suggerimenti, di ulteriori ornamenti ceduti, nella forma di apparizioni, allo spazio visivo e poi ricatturati.
Divertissement. Gioco umano
Uomo, animali, oggetti ora son pronti ad una convergenza interattiva, a molteplici intersezioni, e questo recente processo assaporato dall’Autore riconosce come meccanismo propulsore il ludus, l’assunzione di un magnetismo affidato al divertissement volto ad una funzione liberatoria, quasi terapeutica. Il catalogo è vario, vorticosamente affollato di grafemi, figurine dal gusto informale, miniaggregati di lettering, forme zoomorfe in un’esecuzione infantile, simbolicamente efficaci, funzionali alla creazione di una vera e propria camera della fantasia in cui il gioco costituisce il concime attivo, dinamico dello sviluppo per una cognizione sempre più avanzata sul valore della conoscenza, sul significato della percezione. Tra segni diacritici, grafemi, allografi, abbozzi e schizzi, emerge un’accennata grafematica che ci riporta anche ad una pur vaga paesaggista fonica, simboli matematici di Harriot, tocchi botanici, interpunzioni. Un tutto che trova la sua origine, ancora come in precedenza, da un caos primitivo, raccolto in una visiva ‘vita organica’, ora dentro silhouette antropomorfe o di oggetti abbozzati e disposti in accennate nature morte poste sopra metafisiche superfici, fino a stilizzarsi in minuscole fiammelle dai contorni umani o in tremuli candelabri appena immersi in una sostanziale fluidità. Poi, di colpo, con il procedere della ricerca, ogni cosa s’irrigidisce similmente ai processi di organicazione, come se l’artista incorporasse elementi chimici nuovi favorendo nei suoi lavori una più evidente e materiata trasformazione.
Ed ecco che i piani morfologici si arricchiscono di una visibilità perentoria: ritornano i segni già osservati, ma disposti in un piano spaziale geometrico, come cristallizzato, dai colori marcati, contrassegnati da evidenti interpunzioni e incomplete forme euclidee. Ma il gioco non si esaurisce: i piani, prima accennati, ora si caricano di fiocchi puntiformi, granulazioni, ridotte forme bastoncellari dimodocché ogni simbolo possa navigarvi all’interno; essi si scontrano, interagiscono, creano una sorta di manifesto globale ridiventato una icona, una traccia che afferma una rinnovata poetica, un ludico approdare in un gioco umano incapace di arrestarsi mentre lampeggiano immagini di piumati esserini volanti, masse dense di materiali astratti, indecifrati frammenti cosmici. Un ammiccare, senza tradire il mandato espressionistico, all’impronta pubblicitaria, ai messaggi legati all’emoticon, in una tipologia di segnali che oggi popolano globalmente il cosmo digitale.
Corollari
Il desiderio incoercibile di libertà che caratterizza il segmento più attuale del lavoro di Ziganoi sembra centrato sull’impulso di affrancarsi da ogni imperio atto a costringere il movimento espressivo, l’incapacità a sopportare, come in Paint the peoples, Nudes and Raw (personale tenuta al “National History Museum – Bulevardi Zogu I”, di Tiranë, 2018; testo di Flavia Alaimo) l’urto delle frontiere in una contemporaneità ove il nomadismo, le tragiche fasi delle migrazioni sono elementi che mettono in discussione la dimensione globale del pianeta, acuendo le differenze. E gli acrilici su tela e juta di Ziganoi (Naviganti perduti; Itaca; Salto nel buio; Esche; Nudi e crudi; Painting people; Correnti sbagliate), privati dalle cornici, mantengono e includono in sé tutte le spezie estetiche cui s’è fatto cenno e, allo stesso tempo, esprimono quella tensione sociale desiderosa di trasferire e selezionare criticamente, nella confezione del dipinto, quei valori artigianali ritenuti più pertinenti alla propria vocazione estetica. Il riferimento alla dimensione socio-estetica di Georg Simmel vige proprio in quell’affermazione del critico nel porre l’accento come «il carattere delle cose dipenda in ultima istanza dal fatto che siano un intero o una parte»; ciò è affermato in “Forme del visibile-La cornice”, dove tale perimetro, cioè la sua “unità di elementi particolari”, è, per il sociologo berlinese, separata in quanto è vista quale ‘mondo a sé’, «luogo di una continua esosmosi ed endosmosi con l’esterno». Nell’opera, però, si riflette una «assoluta chiusura» ed una «difesa nei confronti dell’esterno … sintesi unificante nei confronti dell’interno», e dove, per Simmel, la «prestazione della cornice nell’opera d’arte è di simboleggiare questa duplice funzione del suo limite rafforzandola». Su tale interessante concetto in cui la cornice, o il chiudere il perimetro creativo, non sia mera superfetazione, né tanto meno una coercitiva esclusione, visto che essa si comporta come una membrana semipermeabile capace di utilizzare tutti i nutrienti dall’esterno, si consolida l’idea che serva, comunque, ad incrementare la potenzialità espressiva del contenuto linguistico dell’opera.
Oggi, l’esempio di Ziganoi accenna a una necessaria osmosi con quanto ci circonda, in quanto facciamo parte di un umwelt, vale a dire di un ‘ambiente’ con il quale interagiamo, che è produttore di intersezioni, percezioni, modulando il ‘corporeo’ e il ‘mentale’. Liberare la tela, egli afferma, nel nostro momento storico, significa anche simboleggiare e rafforzare l’eluizione, il mescolamento di umori. Avviare quelle forme alte di meticciato che divaricano gli spazi della cultura e del mito, veri e propri monoliti delle solari civiltà mediterranee.
Dentro il mio occhio, il gioco
di Aldo Gerbino
Rotondità canora dei miei sensi, senza alti né bassi,
come le immagini pastose di quelle VELE fatte per na-
vigare tutte dentro il mio occhio
(e nei fiori variopinti del cervello)
[Guglielmo Jannelli, da L’arcobaleno dei miei sensi, 1926]
Un quadro d’insieme
Il cromodinamismo insito ed espungibile dalle Optische Poesie, nutrite dall’intelletto pluri-immaginifico dell’extravagante, quanto fantasioso precursore, il tedesco Oskar Fischinger (1900-1967), sembra inconsapevolmente raccolto dalla struttura segnica di Ziganoi (alias Ignazio Cammalleri). Egli si accosta a tale dispositivo intellettuale con la sua circolarità di marchi, di efflorescenze pigmentarie, d’involucri e intrecci, tutti oggetti visivi pensati in movimento e che non soddisfano a pieno, o almeno non acquietano, il suo furor creativo; una tensione del ‘fare’ capace di consegnarci una continua, non aggressiva, fisiologia germinante. Un bergsoniano élan vital indirizzato verso un’ossessività dell’espressione geneticamente connaturata, dedicata a quella cifra esemplare aderente alla linea, ad una geometria – potremmo dire con toni declamatori – straziata dal tentativo volto ad una possibile agenesia della forma, benché essa sia destinata ciclicamente a ritornare. Linee, attraversamenti, intrecci, stie, spezzature, fanno della visione di Ziganoi il suo substrato di solidità, una vitale giustificazione proprio in virtù di quel custodire, riconsegnare – nel suo percorso evolutivo – l’icona collocata sulla soglia di riflessione: esemplare sponda su cui disporre gli anni di un faticoso processo maieutico.
I magnetismi rilasciati da quest’artista sembrano guidarci verso la necessaria perentorietà del gesto e, non a caso, della sua componente ludica, in una sorta di imbrigliamento del flusso operativo, in quelli che sono i punti giunzionali di ogni inequivocabile quotidiano conflitto, sempre alla ricerca di un bilanciamento naturale legato alla dimensione delle cose, e, contemporaneamente, al fragile temperamento che le cose, a modo loro, ci restituiscono. Una visione che incontra, almeno per alcuni aspetti e in modo tangenziale, quel “Racconto la società con la casa, la famiglia” – dichiarazione di poetica dello spagnolo Mateo Maté (Galleria Nazionale di Roma, 2020) – dove si parla di “nazionalismo domestico”, anti-globalizzante, in cui si riflette e s’irraggia comunque il desiderio di un’interezza sociale, senza obliare le identità, per una civiltà intinta in quello smalto tolstoiano del villaggio/mondo. Ed anche, e non potrebbe essere altrimenti, Ziganoi racconta di un ordine parallelamente mosso e articolato in quella geocultura del quotidiano in cui la materia, di cui son fatte le cose che ci circondano, ci viene consegnata, parcellizzata, nella caldaia comune della sostanza, ricca di quelle parole delle quali ci serviamo al fine di un riconoscimento, d’una possibile attrazione sentimentale.
D’altronde è Takis Varvitziotis a rilevare, in un suo verso tratto da I fili della Vergine, come «noi nominiamo le cose per salvarle dalla morte»; in tale maniera queste evenienze sono, soprattutto, il tentativo di rileggere il riflesso degli oggetti, a volte veri e propri fossili della civiltà domestica, accogliendo proprio da essi gli interrogativi, gli enigmi che persistono nelle nostre azioni. Un intreccio capace di compensare il nostro linguaggio, nel ricostruire e rilevare l’archetipo che sottostà a ogni gesto, ad ogni macchina che produciamo e che traduce gli oggetti in pròtesi delle nostre mani, del nostro stesso pensiero, modificando ed estendendo la qualità del nostro sensorio.
Il percorso attuale di Ziganoi apre tutti i versanti della sua ricognizione nella continua pratica del mondo accessibile, e, allo stesso tempo, indagandolo nell’astrazione, in quel suo intrigo soltanto in apparenza solitario.
Tale suo mondo della rappresentazione si dispone quale sostanza primaria che ha fatto della percezione la propria ragione creativa. Il cammino affrontato sembra condurlo verso approcci sinestetici tra terra e spazio, accompagnati dall’avvolgente rullio del piano comportamentale. C’è da notare come il paesaggio degli oggetti, nelle plurime morfologie di Ziganoi, si relazionino lentamente con una costruenda poetica nella quale, abbandonando le linee che furono storicamente della “nuova figurazione”, e con un sollecito attingere ai moduli pertinenti della frammentazione del simbolo e soprattutto dell’astrazione gestaltica, si rivelano come percorsi indefettibili, proprio in virtù dell’impegno primario della loro dinamica interiore. Condizioni, queste, che sono sostenute dall’intensità consapevole di tracciati, e di quell’affollarsi dei corpi geometrici articolati, particolarmente, anche nella loro essenziale qualità tonale. Un procedere che insiste sulle sue necessarie visioni, le quali, sempre più vanno qualificando un personale linguaggio posto al servizio d’una ricorrente immagine poetica. I segni di tale forza, riversata nel diorama delle proprie invenzioni (e fuori dalla logica descrittiva), connotano figure capaci di affidarsi alla conflagrazione dei vari elementi del postmoderno per quel tanto che si renda sufficiente a prendere distanza dallo stereotipo.
Su tale versante si registra uno spessore pittorico arricchito dalla cultura figurativa di base, non obliata, né tanto meno deplorata, per quel mantenere nella dovuta considerazione le puntuali emersioni iconiche che puntellano il proprio destrutturato linguaggio. Per Ziganoi ciò si pone come crescita del suo lessico sempre ben nutrito dall’osservazione riflessa dal mondo visionario, poi sceso nelle fratture impervie della realtà, tanto che in ogni momento esso ci appare quale condizione emozionale, empatica: una costante utile presenza al progredire del proprio registro comunicativo. Il desiderio di avvertire e potenziare l’abbandono delle effigi, pur trattenendo a sé il senso raffigurativo, certo meno intimo delle cose, gli consente di ricodificare la ricerca più attuale della sua pittura. In queste tele, in queste sue carte, fluisce senza interruzione la proiezione della sostanza dell’agire e dello stare in cui, appunto: il luogo, la casa, l’ambiente più prossimo al vissuto giornaliero circondano e coinvolgono la storia personale, la memoria, tutte quelle prensili esigenze rese attive dalle sostanze del vivere e dalla volontà di una energica rappresentazione.
Queste proiezioni sprigionate nelle atmosfere dell’óikos, ma non per questo meno avvinte alla tangibilità della terra, si materializzano nel gioco dei colori, con la vivacità impulsiva mescolata, e non sottratta, ad un nervoso ‘tattilismo’ disperso tra il nostro corpo e il tracciato dei viluppi cromatici; esse per altro affollano la materia senza soffocarla, infarcendola con i lembi gioiosi della realtà. Ci si attesta in quell’ambito offerto dall’attrito che d’improvviso si elide nell’incontro delle luci, percependo quanto, in un continuum, già viva in noi.
In questo cerchio di possibilità espressive maturate nel lavoro di Ziganoi, prende corpo la sua odierna ricerca, dipanata da un involucro che attinge con le sue radici al mondo dell’infanzia e a quel format della fanciullezza perenne che trova alimento durante il corso dell’esistenza, in ogni momento e in ogni luogo. Una costante tensione affiancata, indefettibilmente, alla natura del segno raccolto e aggrumato nella sua pienezza polisemica, sospinto da uno spontaneo vigore affinché possa essere sotteso in una cerniera di moduli compositivi disposti per atemporali ambienti domestici, o nello scorrere di un’introspezione spirituale. In questi luoghi creativi la geometria si trasforma in ritmo, abbandona l’urgenza ornamentale, anzi la sfalda, la sopprime, a volte la dilata o le assegna un’amplificazione inaspettata. Una rappresentatività della forma tradotta e vestita dell’idea dell’umwelt; affinché venga mostrata nel suo viluppo di sollecitazioni percettive sfociate, più che nel contrasto dei pigmenti, nell’interfaccia di linee e segni risoluti. Tali elementi si compattano in assemblaggi di corpi confinanti: oggetti che protrudono dalla memoria, dall’idea del tatto, dall’olfatto, dai sensi poiché esse stessi appaiono come materia ineffabile dell’esistenza.
Sono segnali rilevabili in spaziali e attorte linee, in rettangoli sfumati, in cerchi, nell’esuberante flessione di colori essenziali, nell’eterea disposizione di emotività ottica nella quale il dominio par essere legato alla disposizione casuale, insubordinata alla stessa ragione e, pur ‘essa stessa’, ragione di un ordine coscienziale perentorio. Eppure tale disposizione di materiali iconici, offerti allo sguardo e alla mente, matura con lentezza in simboli ornamentali, ma di un ornamento affiliato all’atmosfera del momento, senza particolari edulcorazioni, senza affettate disponibilità della composizione. Il tutto diventa allora denominatore comune della molteplicità del visibile, forme evocate da un vissuto armonico e speziato dalla leggerezza linguistica; una centralità d’immagini votate all’intima riflessione, spiralizzate e attratte dall’insistito quanto ordinato mulinello dei desideri, dei ricordi, in un certo senso da un vago sapore nostalgico.
In tale succo non manca agli oggetti la possibilità di trasformarsi da icone in simboli (nell’accezione di Peirce), per poi arricchirsi, grazie alla loro iterazione di scritture a volte asemiche, in stimolanti ‘non sense’ capaci di autogenerarsi. In tale complesso sistema il gioco si fa allora più probante alla propria ricerca figurativa, mai assorta su se stessa, bensì si apre a soluzioni dinamiche capaci di stravolgere lo scenario rappresentativo.
Percorsi
Ritmi e asemie
Col differenziarsi del percorso creativo, Ziganoi attinge ad una istintualità diremmo pascoliana, in quanto abbandonata a schemi d’azione totalmente immersi nella dimensione fanciullesca, nella ricostruzione della memoria accesa col fuoco della curiosità e che insiste sul piano della conoscenza elaborando delle strategie votate all’azione. In tale gestualità si esprime e si comprime la parte primaria del percorso di Ziganoi, il suo procedere che insiste sulla condensazione di figure euclidee – il quadrato il triangolo – le quali vengono infisse sulle superfici per supporti variabili: dalle tele alle tavole ai tessuti, riconoscendo, nella molteplicità delle materie, una necessaria espressione del registro tattile e visivo. Tali simboli geometrici si attestano su altri segni di arresto: punte di frecce, cerchi impropri che riportano ad una linguistica biologica in cui le icone raccontano di una identità specifica, di una narrazione della loro genesi e della loro capacità di metamorfosare. Altre volte, a poco a poco, tali elementi si vanno come screpolando, disgregando. Allora le linee s’intersecano, si frammentano, creando grovigli, agglomerati, agglutinazioni ora di colore ora di segmenti.
La geometria diventa, quindi, il frammento, il coagulo, perpetuandosi in un’esigenza di astrazione gestuale (in quella vasta area novecentesca dell’ “action painting” che ancor oggi riflette i suoi bagliori) e imprimendosi nel testo primario del racconto pittorico. Altre volte le linee si aggregano in un quaderno di sottili e insistenti tralicci: una tessitura o una pettinatura monocromatica alternata ad agglomerati pigmentari in cui i colori di base si fanno pedana essenziale alla stabilità del vissuto pittorico. In altri casi questo suo tardivo e ricreato espressionismo astratto si va addensando in grosse zolle cromatiche compattate, quasi emergenti dalla tela, impossibilitate alla fuga, ma non per questo limitate nel loro progetto evoluzionistico, giacché Ziganoi, ora ci dice della frammentarietà di tali morfologie, destinate a trascorrere tempi e modi legati all’istinto esacerbato per un orizzonte sempre in progress. In altri momenti di questa fase incipitaria e, allo stesso tempo, d’imprinting, proprio nell’approccio determinante del suo tragitto creativo, i segni si ipertrofizzano, diventano corpose virgole cromatiche, per assestarsi su paesaggi linguistici asemici che, ora col colore blu ora col rosso, trascrivono pagine in cui il significato scorre sul filo dell’atonia, del respingimento di ogni proporzione logica, lasciando il tutto ad una collocazione mentale a carattere archetipico attinta dal caos. Un’asemia che produce, comunque, argomenti su cui destinare la propria dimensione futura del dipingere.
Morfologie plurime
La dimensione intermediaria che connette il lavoro precedente alla ricerca che segue, si configura in un attestato di lingua e pigmenti costituito e rafforzato da un paesaggio insistentemente euclideo, un ribaltamento delle tessiture ancor più con zolle geometriche come disidratate, incrociate, pronte a costituire, anche con la presenza di forme tubulari, aspetti di composizione eterogenea e alla ricerca di un rinnovato assetto dinamico.
Un comparto espressivo in cui viene denunciata da Ziganoi la continua e attenta riflessione sulla forma e sulla sua dissoluzione, nonché sulla sua ricostituzione arricchita da nuovi suggerimenti, di ulteriori ornamenti ceduti, nella forma di apparizioni, allo spazio visivo e poi ricatturati.
Divertissement. Gioco umano
Uomo, animali, oggetti ora son pronti ad una convergenza interattiva, a molteplici intersezioni, e questo recente processo assaporato dall’Autore riconosce come meccanismo propulsore il ludus, l’assunzione di un magnetismo affidato al divertissement volto ad una funzione liberatoria, quasi terapeutica. Il catalogo è vario, vorticosamente affollato di grafemi, figurine dal gusto informale, miniaggregati di lettering, forme zoomorfe in un’esecuzione infantile, simbolicamente efficaci, funzionali alla creazione di una vera e propria camera della fantasia in cui il gioco costituisce il concime attivo, dinamico dello sviluppo per una cognizione sempre più avanzata sul valore della conoscenza, sul significato della percezione. Tra segni diacritici, grafemi, allografi, abbozzi e schizzi, emerge un’accennata grafematica che ci riporta anche ad una pur vaga paesaggista fonica, simboli matematici di Harriot, tocchi botanici, interpunzioni. Un tutto che trova la sua origine, ancora come in precedenza, da un caos primitivo, raccolto in una visiva ‘vita organica’, ora dentro silhouette antropomorfe o di oggetti abbozzati e disposti in accennate nature morte poste sopra metafisiche superfici, fino a stilizzarsi in minuscole fiammelle dai contorni umani o in tremuli candelabri appena immersi in una sostanziale fluidità. Poi, di colpo, con il procedere della ricerca, ogni cosa s’irrigidisce similmente ai processi di organicazione, come se l’artista incorporasse elementi chimici nuovi favorendo nei suoi lavori una più evidente e materiata trasformazione.
Ed ecco che i piani morfologici si arricchiscono di una visibilità perentoria: ritornano i segni già osservati, ma disposti in un piano spaziale geometrico, come cristallizzato, dai colori marcati, contrassegnati da evidenti interpunzioni e incomplete forme euclidee. Ma il gioco non si esaurisce: i piani, prima accennati, ora si caricano di fiocchi puntiformi, granulazioni, ridotte forme bastoncellari dimodocché ogni simbolo possa navigarvi all’interno; essi si scontrano, interagiscono, creano una sorta di manifesto globale ridiventato una icona, una traccia che afferma una rinnovata poetica, un ludico approdare in un gioco umano incapace di arrestarsi mentre lampeggiano immagini di piumati esserini volanti, masse dense di materiali astratti, indecifrati frammenti cosmici. Un ammiccare, senza tradire il mandato espressionistico, all’impronta pubblicitaria, ai messaggi legati all’emoticon, in una tipologia di segnali che oggi popolano globalmente il cosmo digitale.
Corollari
Il desiderio incoercibile di libertà che caratterizza il segmento più attuale del lavoro di Ziganoi sembra centrato sull’impulso di affrancarsi da ogni imperio atto a costringere il movimento espressivo, l’incapacità a sopportare, come in Paint the peoples, Nudes and Raw (personale tenuta al “National History Museum – Bulevardi Zogu I”, di Tiranë, 2018; testo di Flavia Alaimo) l’urto delle frontiere in una contemporaneità ove il nomadismo, le tragiche fasi delle migrazioni sono elementi che mettono in discussione la dimensione globale del pianeta, acuendo le differenze. E gli acrilici su tela e juta di Ziganoi (Naviganti perduti; Itaca; Salto nel buio; Esche; Nudi e crudi; Painting people; Correnti sbagliate), privati dalle cornici, mantengono e includono in sé tutte le spezie estetiche cui s’è fatto cenno e, allo stesso tempo, esprimono quella tensione sociale desiderosa di trasferire e selezionare criticamente, nella confezione del dipinto, quei valori artigianali ritenuti più pertinenti alla propria vocazione estetica. Il riferimento alla dimensione socio-estetica di Georg Simmel vige proprio in quell’affermazione del critico nel porre l’accento come «il carattere delle cose dipenda in ultima istanza dal fatto che siano un intero o una parte»; ciò è affermato in “Forme del visibile-La cornice”, dove tale perimetro, cioè la sua “unità di elementi particolari”, è, per il sociologo berlinese, separata in quanto è vista quale ‘mondo a sé’, «luogo di una continua esosmosi ed endosmosi con l’esterno». Nell’opera, però, si riflette una «assoluta chiusura» ed una «difesa nei confronti dell’esterno … sintesi unificante nei confronti dell’interno», e dove, per Simmel, la «prestazione della cornice nell’opera d’arte è di simboleggiare questa duplice funzione del suo limite rafforzandola». Su tale interessante concetto in cui la cornice, o il chiudere il perimetro creativo, non sia mera superfetazione, né tanto meno una coercitiva esclusione, visto che essa si comporta come una membrana semipermeabile capace di utilizzare tutti i nutrienti dall’esterno, si consolida l’idea che serva, comunque, ad incrementare la potenzialità espressiva del contenuto linguistico dell’opera.
Oggi, l’esempio di Ziganoi accenna a una necessaria osmosi con quanto ci circonda, in quanto facciamo parte di un umwelt, vale a dire di un ‘ambiente’ con il quale interagiamo, che è produttore di intersezioni, percezioni, modulando il ‘corporeo’ e il ‘mentale’. Liberare la tela, egli afferma, nel nostro momento storico, significa anche simboleggiare e rafforzare l’eluizione, il mescolamento di umori. Avviare quelle forme alte di meticciato che divaricano gli spazi della cultura e del mito, veri e propri monoliti delle solari civiltà mediterranee.